lunedì 18 agosto 2008

L’Angelo Azzurro, o la fine del Settantasette torinese. La tragedia che ha segnato la fine del Movimento studentesco e la nascita del terrorismo

La metà degli anni Settanta, in Italia, è segnata da una profonda crisi dei gruppi extraparlamentari di estrema sinistra: «La nuova leva del movimento che compare sulla scena politica a partire dal 1975 – scrivono Nanni Balestrini e Primo Moroni – è pesantemente critica e dissacratoria rispetto a stereotipi ideologici, modelli, ritualità e miti della tradizione internazionalista, fatti propri dai gruppi extraparlamentari nati dopo il 1968-69. Questa critica radicale ai “gruppi” (già avviata dal movimento femminista) metteva al centro della polemica le tematiche del “personale politico”, i rapporti tra i sessi, le formalizzazioni gerarchiche, il volontarismo alienante, ecc.». Le prime espressioni di quello che in un documento fu definito “un nuovo modo di fare politica” si manifestano a Milano tra il 1975 e il 1976, quando folte compagini giovanili danno vita a nuove e spontanee forme di aggregazione, a partire dalla critica all’infelicità della loro vita quotidiana: «Per tutti, indifferentemente esiste il problema del “tempo libero”, un tempo vissuto come obbligo coatto al vuoto, alla noia, all’alienazione». È a partire dalla critica di queste condizioni di vita che si costituiscono i "circoli" del proletariato giovanile. Costituiti da una maggioranza di giovani operai, apprendisti, impiegati delle piccole fabbriche dell’hinterland, e da una minoranza di disoccupati e studenti delle scuole professionali, nell’arco di pochi mesi occupano decine e decine di stabili (vecchie fabbriche abbandonate, chiese sconsacrate, case sfitte) e li adibiscono a centri sociali in cui dare vita ad iniziative sui temi della condizione giovanile. La natura violenta del “nuovo modo di fare politica” si manifesta immediatamente: i giovani si riversano al centro non più a gruppi, nei bar o nei cinema di terza categoria, bensì per suonare, ballare, fare festa, ma durante questi raduni scoppiano sempre più spesso scontri con la polizia e si fanno sempre più numerosi gli “espropri proletari” (né più né meno che furti) in negozi di lusso e supermercati, fino a raggiungere proporzioni di massa. Spirito ludico e aggressività: il primo destinato, nel corso del 1977, a dissolversi rapidamente, la seconda ad esplodere in tutta la sua virulenza (2.188 attentati terroristici, 32 gambizzati e 12 morti è la contabilità di uno dei più terribili fra gli “anni di piombo”). In questa violenza sempre più feroce si inquadra l’assalto, il 1° ottobre, all’Angelo Azzurro, locale nel pieno centro di Torino, nel quale perde la vita Roberto Crescenzio, ventiduenne estraneo alla militanza politica, un episodio che segnerà la fine del movimento dei “circoli”, ricostruito da Bruno Babando, giornalista e scrittore, in Non sei tu l’Angelo Azzurro. Una tragedia del Settantasette torinese, ed. Marco Valerio, € 16,00.

Festa e violenza, si è detto: «è impossibile scindere, in questo tentativo di destabilizzare le istituzioni – scrive Babando nella Premessa -, il gesto surreale da quello che porterà nelle manifestazioni non solo il simbolo ma la presenza della P38 […]. Azione violenta e creatività erano inscindibili, modi differenti di uno stesso pensiero polimorfo, ricco, forse inconsapevolmente, di ambiguità». L’ala “creativa” del movimento – che si sarebbe dissolta prima della fine dell’anno – seppe dar vita a momenti ludici, che sembravano voler sottrarre alla dimensione collettiva il dominio esclusivo e assolutizzante della politica. Ma, aggiunge Babando, «Per altri versi, l’allegria e l’ironia dissacrante di questa area – che ha negli “indiani metropolitani” il suo emblema – appare talora venata da un senso di sconfitta, quasi di disperazione», che non di rado sconfinerà in una vera e propria spinta autodistruttiva: «ciò che non riuscì a fare lo Stato ci pensò l’eroina».

In ogni caso, i circoli del proletariato giovanile suscitano subito interesse, e trovano appoggio organizzativo, in strutture politiche e culturali già organizzate. Da un lato, quello dell’“ala creativa”, il circuito di “Re Nudo” segue fin dall’inizio questo movimento che fonda la sua azione su un “nuovo modo di fare politica” che rispecchia lo slogan “il personale è politico”, e per questo vede nei circoli la realizzazione pratica del suo quasi decennale impegno controculturale. Dall’altro, le strutture politiche di Lotta Continua, in crisi dopo lo scioglimento ufficiale dell’organizzazione sancito dal congresso di Rimini dell’anno precedente, forniscono al movimento un supporto organizzativo, senza contare il grande numero di militanti delusi da quell’esperienza politica.

A Torino, Lc è ancora molto radicata: una sede centrale in corso San Maurizio 27, vicino a Palazzo Nuovo (la sede delle acoltà Umanistiche) e alla Mole, un migliaio di iscritti, migliaia di militanti, ventuno sezioni che coprivano in modo omogeneo il territorio cittadino, e circoli come il Barabba, il Cangaçeiros o lo Zapata, più o meno contigui. Eppure, sono proprio le testimonianze dei militanti del Cangaçeiros, il più organico a Lc, che danno la misura dell'insofferenza dei più giovani per il clima di rigidità, di spersonalizzazione, di algida burocrazia da "piccolo Pci" che si respira in Lotta Continua: «A un certo punto Lc mi ha mandato a fare il commissario nella sezione Mirafiori Quartiere perché ne succedevano di tutti i colori, c'erano i cristiano per il socialismo e gli stalinisti bestemmiatori che litigavano, per cui vivevo di nuovo la situazione di uno che arrivava lì e non c'entrava niente, da funzionario di partito. quindi una situazione che non c'entrava niente con me se non quella della mia ideologia»; «Mi ricordo che avevamo i capelli lunghi e questo non andava molto bene in Lotta Continua in quel periodo, e noi eravamo anche i più giovani. C'era un clima strano, io sono sempre steto lontano dall'entrare in Lc quando era forte, grande e organizzata a causa proprio di questa struttura ruguda, precisa, che secondo me allontanava un certo tipo di gente. Mancava in quel periodo lì una politica, che è poi quella che abbiamo fatto noi, più rivolta ai giovani, con tutte le contraddizioni che si vivevano, la vita com'era, i capelli lunghi, gli spinelli...»; «...il personale è politico: immagino non volesse dire solo le relazioni personali, rapporto fra i sessi, gelosia, eccetera, ma anche le relazioni con i genitori ecc. Probabilmente per personale si intendevano i bisogni, gli interessi e le contraddizioni: noi in questo senso qualcosa abbiamo fatto».

Il primo capitolo del libro si apre con due fotografie, la prima di Roberto Crescenzio, in attesa dei soccorsi, con il 90 per cento del corpo ustionato, la seconda di un gruppo di giovani del circolo dei Cangaçeiros, sorridenti e col pugno alzato, ai piedi del monumento ai Cavalieri d’Italia in piazza Castello. Sembrano un’innocua combriccola di liceali in gita scolastica, indisciplinati e chiassosi, ma in fondo ancora immuni dalla crudeltà umana. «Invece no. Tra quei giovani spavaldi e all’apparenza inoffensivi – scrive Babando - cova nelle viscere il verme tignoso della violenza e nei meandri insondabili delle loro acerbe menti cova già la morte. Quasi tutti sono stati segnalati alle autorità per una dissennata predisposizione a condotte brutali, alcuni hanno all’attivo imprese di teppismo di inusitata ferocia, per molti furti, rapine e attentati sono ormai il pane quotidiano di una militanza vissuta in maniera totalizzante».

Una brutalità e una ferocia che si scatenano anche il 1° ottobre, inizialmente con risultati deludenti, che lasciano trasparire lo sbando e la frustrazione in cui il movimento sta ormai precipitando. Il giorno prima, a Roma, durante una manifestazione, un gruppo di esponenti del Msi ha ucciso Walter Rossi, ventenne militante di Lotta Continua. Dopo qualche discussione fra i vari circoli, si raggiunge l’accordo sull’obiettivo della manifestazione, peraltro già noto alle forze dell’ordine fin dalla sera precedente: dare fuoco alla federazione provinciale missina di corso Francia 19. Verso le 10.30, tre cortei formati in prevalenza da studenti liceali e degli istituti tecnici e professionali, in tutto 2.500-3.000 ragazzi, si mettono in marcia in tre cortei distinti, e giungono a pochi metri dall’inizio di corso Francia. Decine di dimostranti calano i passamontagna o si mascherano con fazzoletti e sciarpe, ed estraggono dai tascapane bulloni, cubetti di porfido e “bocce” (le bottiglie molotov). Ad attenderli trovano un cordone di carabinieri e di uomini del 5° celere, con giubbotti antiproiettile, fucili e candelotti lacrimogeni innestati. Alcune auto sono raggiunte da bottiglie molotov, un’altra bottiglia incendia un albero sopra il tetto di un tram e per qualche istante si teme che l’incendio avvolga la vettura e i passeggeri, poi il fuoco si spegne. Nel frattempo, le forze dell’ordine sono già riuscite a ricacciare indietro i manifestanti. Mentre il grosso del corteo ripiega verso il centro, alcuni commandos di una decina di persone ciascuno si disperdono per vie laterali e compiono azioni di guerriglia urbana come fracassare la vetrina di una farmacia ed “espropriare” giacche e jeans da un negozio. Si tratta, precisa l’autore, di diversivi per distogliere le forze dell’ordine dall’altro obiettivo, la sede della Cisnal, il sindacato vicino alle posizioni del Msi. Qui, però, trovano gli uffici chiusi, e tutto si riduce con il lancio di bottiglie molotov contro la porta finestra del terzo piano e contro il portone. Anche il tentativo di assalto a Comunione e Liberazione si risolve nel lancio di due molotov: «in fondo è semplice routine. Il bilancio di quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto passare alla cronaca delle lotte antifasciste come una “grande mobilitazione militante” è assai magro. Ed è forse per frustrazione che lungo il percorso vengono compiuti una serie di atti che difficilmente possono essere definiti in altro modo che puro teppismo. È un corteo ormai allo sbando, privo di meta, inappagato nella sua finalità principale – la chiusura dei covi fascisti – e, cosa più pericolosa, scombinato sul piano organizzativo».

Il corteo si ferma in via Po angolo via Sant’Ottavio, la strada che conduce a Palazzo Nuovo, sede, come si è detto, delle facoltà umanistiche. I manifestanti sono ancora muniti di molotov, e soprattutto, come ben comprendono i capi, sono carichi di tensione, di adrenalina, di impulso all’azione esasperato dalla frustrazione. Sul corteo è calato il silenzio, niente più cori, grida, canzoni. A rompere la quiete irreale è Angelo Luparini, che lancia il segnale convenzionale, “Caino, avanti!”, con il braccio destro alzato. Le squadre del Barabba e del Cangaçeiros, una dozzina di giovani in tutto, si dirigono di corsa verso l’Angelo Azzurro, locale di via Po 46 che secondo una diceria diffusa nel movimento sarebbe un ritrovo di fascisti e un luogo di spaccio di droga. «Li segue e li scorta una piccola folla di dimostranti, eccitata dalla prospettiva di assistere e partecipare all’ennesimo episodio di guerriglia, un branco assalito da un delirio collettivo, posseduto dal demone della violenza. È la logica del branco a prevalere su ogni barlume di senno».

All’esterno del bar sosta il proprietario, Luigi De Maria, 35 anni, dentro ci sono la moglie, Maria Benedetta Evangelista, 30 anni, il barista Bruno Cattin, 27, e i due amici ventiduenni Roberto e Diego. Gli estremisti, infrante le vetrate, irrompono nel locale lanciando molotov e cubetti di porfido, i gregari gettano all’interno ogni genere di oggetto, sedie, tavolini, fioriere. I titolari riescono a fuggire dal retrobottega, Diego viene riempito di pugni e calci, colpito da pesante bastonata sulla testa e letteralmente gettato fuori, sul marciapiede. Roberto, in preda al panico, si barrica nella toilette: questo segna il suo destino. L’incendio divampa in brevissimo tempo, alimentato dalle suppellettili, dalle bottiglie di alcolici, e soprattutto dalla moquette. Roberto decide di uscire dal bagno, credendo di cavarsela con un pestaggio, ma appena aperta la porta viene investito da una vampata di fuoco: tenta di attraversare le fiamme, incespica, cade sulla benzina incendiata e in un istante si trasforma in una torcia umana. Benché allo stremo, riesce a chiedere aiuto, raggiunge la porta e stramazza a terra. La scena lascia gli assalitori impietriti: si guardano tra loro, nessuno ha il coraggio di prendere l’iniziativa, alla fine tutti fuggono, tranne due di loro che cercano di portare i primi soccorsi a Roberto.

Ricoverato al Centro grandi ustionati del Cto con il 90 per cento del corpo ustionato, Roberto Crescenzio sopravviverà due giorni, trovando persino la forza di rilasciare agli agenti di P.S. dell’ospedale una lucida e dettagliata dichiarazione. Alla cieca e furiosa violenza dei manifestanti, Torino risponde con civiltà e fermezza: oltre ventimila persone, sotto la pioggia sottile di ottobre, con in testa gli studenti dell’istituto tecnico industriale Spagnesi, dove Roberto si era diplomato e poi aveva trovato lavoro come assistente di laboratorio chimico, seguono il feretro dall’abitazione di via Oropa al cimitero di Sassi, sulla riva destra del Po. Il Pci torinese ha organizzato una massiccia presenza dei suoi iscritti, che marciano però senza bandiere, mentre gli operai dei consigli di fabbrica tengono tesi una cinquantina di striscioni. «Fra i giovani – scrive Babando – che sono arrivati in piccoli cortei dall’Università, dai licei e dagli istituti tecnici ci sono molti di quelli che sabato hanno partecipato alla tragica manifestazione, e, forse, confusi agli altri, ci sono pure i componenti del commando che ha attaccato il bar di via Po; senza passamontagna e tascapane, il volto smarrito di chi sa d’essere responsabile».

La vicenda giudiziaria è lunga, e ricostruita da Babando con dovizia di particolari, senza risparmiare critiche al modo in cui sono state condotte le indagini. La sentenza definitiva arriva il 26 marzo 1984: Francesco D’Ursi, Angelo De Stefano, Angelo Luparia e Angelo Bonvicini sono condannati a 3 anni e 6 mesi, Stefano Della Casa a 3 anni e 3 mesi, Peter Freeman viene assolto per insufficienza di prove. «Eppure ancora oggi – è l’amara considerazione -, a distanza di tanto tempo, non sappiamo tutti i nomi di coloro che hanno ammazzato Roberto Crescenzio. Anzi, proprio non sappiamo chi l’ammazzò. […] Nessuno è stato condannato per omicidio. Roberto, anche per la giustizia, non è stato assassinato, non è morto per mano assassina, ma è stato vittima della tragica conseguenza di un incendio doloso, epilogo del drammatico incidente occorso a una banda di teppisti e piromani durante la commissione di un altro reato. Non volevano uccidere, ma hanno ucciso. Non avevano nulla contro Roberto ma lui ci ha lasciato la vita. È l’insanabile contrasto tra verità giudiziaria e verità storica, tra la realtà ricostruita in un’aula di tribunale e quella vissuta dagli attori in carne ed ossa. La giustizia spesso deve arrendersi di fronte ai propri limiti, limiti che sono anzitutto quelli umani, accentuati dalla congerie di codicilli, glosse e stratagemmi difensivi di cinici azzeccagarbugli. È giustizia umana, appunto, non divina».

Alcune settimane dopo la morte di Crescenzio, un articolista di Ombre Rosse, rivista edita da Samonà e Savelli, si reca negli studi di Radio Città Futura, emittente del movimento che aveva seguito la manifestazione. Ne scaturiranno due fili diretti con gli ascoltatori, uno gestito dall’articolista, l’altro da redattori della radio. Ne emerge, commenta Babando, uno spaccato impressionante delle posizioni divergenti, e in alcuni casi addirittura contrapposte, di quella che era sembrata una sorta di «assemblea permanente dell’estremismo cittadino». Alcuni di quegli interventi sono sconcertanti, addirittura allucinanti: «Sull’eventualità che durante la pratica di un obiettivo possa rimetterci qualcuno che non c’entra, se n’era discusso sempre poco, di azioni del genere il movimento ne ha praticate tante e non era mai accaduta una cosa così: è sempre sembrato naturale che quando si attacca un luogo fisico tutti escano prima. Dopo l’Angelo Azzurro più nulla è naturale, ma non è giusto affermare, come hanno fatto molti, che d’ora in poi non si possano più praticare obiettivi dove ci sia la minima possibilità che qualcuno si faccia male: questo ragionamento porterebbe all’inazione, non si attaccherebbe nemmeno il Msi»; «In questa società nessuno c’entra niente, nessuno è in un posto per caso, tutti quanti abbiamo una funzione che ci è imposta da questa società. Si dice che è morto un ragazzo di 20 anni, che è stato ucciso dal movimento, ma avrebbe dovuto essere anche lui nel corteo, esercitare anche lui la stessa violenza che esercitava il corteo»; «La gente a volte non si rende conto di come stanno le cose: uno che si fa gli affari suoi, che non si interessa di politica, non capisce che proprio del fatto che lui non fa niente, che vuol starsene in pace, la borghesia ne approfitta e lo mette come muro nei confronti di chi si ribella a questa società. Per noi Crescenzio non è una vittima del movimento, ma è un omicidio di Stato».

In parole come queste si presagisce chiaramente che la distruzione del locale di via Po e la morte di Roberto Crescenzio segnano la fine del movimento a Torino e la rapida chiusura del suo ciclo nel resto d’Italia, per molti con un diffuso “ripiegamento nel privato” e nella solitudine, per altri nell’abbandono alla disperazione e all’eroina, per altri ancora nel passaggio alla clandestinità e poi al partito armato: «Sapremo poi che l’Angelo Azzurro sarà stato per un pugno di giovani torinesi, lo spartiacque tra una militanza vissuta e condivisa ma mai pianificata in banda armata, e quella di un’adesione a organizzazioni terroristiche».

Giorgio Bianco

Bruno Babando, Non sei tu l’Angelo Azzurro. Una tragedia del Settantasette torinese. Torino, Marco Valerio, 2008, p. 186, € 16,00.

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