sabato 30 agosto 2008

Torino, città più armata d’Italia. Ma all’establishment questo non va giù


Dieci milioni di armi detenute legalmente in Italia. Cinque milioni di italiani hanno in casa almeno un fucile o una pistola. Un business floridissimo, anche grazie alla vendita di munizioni, gadget e vestiario. Sono dati forniti da “La Stampa” in un articolo del 21 agosto, che subito dopo, nella più completa indifferenza verso la buona regola di separare la notizia dal commento, chiosa: «Eppure fatti recenti di cronaca dovrebbero far riflettere il legislatore. Perché le norme attuali, soprattutto per la detenzione, sono apparse, in molti frangenti, inadeguate». Inadeguate a che cosa? Domanda quasi superflua, sol che si pensi al fatto che queste righe sono stampate su uno dei principali organi della cultura buonista e politically correct in Italia: alle stragi che ogni tanto qualche squilibrato in preda alla sindrome di Rambo compie con armi regolarmente acquistate e detenute.

Ci si vorrà mica illudere che si intenda “inadeguate” alle infinitamente più numerose rapine a mano armata, non di rado sanguinolente e finanche mortali, che esercenti delle categorie più diverse subiscono quotidianamente, senz’altra difesa, nella maggior parte dei casi, che una denuncia che il più delle volte resterà lettera morta andando a impinguare i polverosi faldoni della burocrazia di Stato? Chi conosce la “Busiarda” non ha dubbi, e infatti, pochi paragrafi sotto, l’autore dell’articolo insiste:
«Oggi il problema degli arsenali fai-da-te s’è aggravato. Il porto d’armi per difesa personale nel 2007 ha raggiunto quota 34 mila; sono state rilasciate 800 mila licenze di caccia e 178 mila per uso sportivo. Ḕ sempre più facile procurarsi armi, anche micidiali. Internet è un gigantesco mercato, spesso illegale. Poi ci sono i canali “coperti” dov’è possibile, pagando cifre modeste, acquistare armi d’ogni tipo, con pezzi provenienti dai depositi degli eserciti smobilitati dell’Est. Persino detonatori e timer per ordigni esplosivi».
“La Stampa” ci regala un’altra sorpresa: la città più armata d’Italia è Torino, con un numero totale di pistole e fucili (provincia inclusa) di 60 mila, possedute per lo più da imprenditori e professionisti, seguiti da cacciatori e appassionati di tiro sportivo, e 1.400 licenze, che prefettura e questura vogliono far scendere a sotto quota 1.000. In prefettura, la linea è semplice: i richiedenti vengono “passati ai raggi X”, e se tutti i requisiti necessari non sono rispettati, la risposta è negativa. In questura, il porto d’armi viene ritirato per lo più al momento del rinnovo: «Se l’imprenditore X ha ricevuto tre anni fa minacce da ambienti malavitosi ma, nella fase attuale, non si sono più riproposte, il porto d’armi non ha più alcuna ragione d’essere».

Questo genere di provvedimenti dimostra come, in Italia, i diritti di proprietà siano concepiti in modo bizzarro, distorto e soprattutto illegittimo. Mentre infatti, come si vedrà, è consentito senza difficoltà di sorta il possesso di beni il cui utilizzo può essere pericoloso e persino mortale, la proprietà delle armi è soggetta a rigidi requisiti in assenza dei quali questo diritto è negato, per non parlare della valutazione arbitraria della “ragion d’essere” del porto d’armi.

In primo luogo, questi avversari statali del libero possesso di armi dimostrano un’impressionante cecità di fronte al fatto che un’arma, in quanto tale, è un bene come un altro, e a meno di negare l’esistenza del diritto di proprietà, la legittimità del suo possesso non è differente da quella del possesso di un orologio o di un televisore. Senza addentrarsi nelle complesse questioni filosofiche relative alla proprietà privata come diritto naturale, basterà osservare che per la maggior parte degli individui il diritto di proprietà è qualcosa di ovvio e intuitivo: se nessuno, probabilmente, pronuncerebbe un’affermazione come «il mio orologio è mio», non perché falsa ma perché clamorosamente tautologica, nessuno di noi sente il bisogno di spiegare agli altri che non possono entrare in casa sua senza il suo esplicito consenso.

Ora, se si ammette l’esistenza del diritto alla proprietà privata, non ci si può esimere dal riconoscere che chiunque può disporre delle proprie cose nel modo che preferisce, sempre che, naturalmente, le abbia ottenute con mezzi legittimi quali scambi, donazioni, acquisti, e non le utilizzi per fini aggressivi. Se un individuo ha comprato un orologio con soldi non rubati, può farne ciò che desidera, purché le sue azioni non interdicano l’analogo esercizio dei propri diritti da parte di altre persone. Vale a dire: non può, ad esempio, scagliare l’orologio dalla finestra in testa a un passante. Ha però piena libertà di determinarne l’utilizzo: portarlo al polso o lasciarlo in casa, regalarlo a un’amica o tenerlo chiuso in un cassetto, distruggerlo, metterlo nel forno o gettarlo nella vasca da bagno. Nessuno ha il diritto d’impedirgli di fare una qualsiasi di queste cose.

Ma allora, perché tutto questo non dovrebbe valere – e infatti vale - per un coltello? Le case di tutti sono piene di coltelli, di ogni forma e dimensione, alcuni dei quali molto affilati e dunque potenzialmente pericolosi, che possono essere impiegati per ferire o uccidere una persona che si trovi in casa, o lanciati a individui lontani.

Ḕ a questo punto che scaturisce la fatidica domanda, rispetto alla quale si constata una così diffusa incomprensione: che cos’è un’arma? Un’arma è un bene come un altro, non differente da un coltello o un orologio. Certo, un fucile può essere più facilmente letale rispetto a questi due oggetti (ma non rispetto, per esempio, a un’automobile). Ma, anche nel caso di un comportamento criminale o folle, non è il possesso del fucile che va sanzionato, ma l’utilizzo che se ne fa. In altri termini, non è l’arma, ma colui che preme il grilletto il responsabile del ferimento o della morte di altre persone. Un fucile o una pistola hanno una loro funzione (ferire o uccidere) così come l’hanno un frullatore, un televisore o un sasso. Noi potremmo ferire o uccidere qualcuno anche con un sasso, ma non per questo è vietato detenere sassi, e allo stesso modo, se facessimo uso di un sasso per ferire o uccidere qualcuno saremmo (giustamente!) condannati.

Come ha scritto il grande economista e pensatore libertario Murray N. Rothbard,
«Dovrebbe essere chiaro che nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo; qualsiasi oggetto, sia esso una pistola, un coltello, o un bastone, può essere usato per aggredire, per difendersi, o per molti altri scopi che nulla hanno a che fare col crimine. Non è più logico proibire o limitare il possesso di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni o pietre».
Alcuni avanzano preoccupazioni, comprensibili e legittime, sul rischio di ferimento o addirittura di uccisione, dell’aggressore: ma chi, moralmente, si sentirebbe di considerarlo anche soltanto minimamente paragonabile al ben più concreto rischio di ferimento o di uccisione, dell’aggredito? Il punto è che il primo, aspirando a trarre il profitto dalla negazione dei diritti altrui, in qualche maniera rinuncia ai propri diritti. Vi sono situazioni in cui non è facile discernere le intenzioni dell’intruso; in queste situazioni, una pistola nelle mani dell’aggredito può fare la differenza.

Se, come è evidente, il diritto a essere proprietari di qualcosa implica che nessuno può derubarci di ciò che è nostro, altrettanto ovvio è che i ladri e i criminali esistono, ed è necessario escogitare soluzioni a difesa dei propri diritti. La soluzione che lo Stato cerca di imporci è quella di obbligarci a delegargli l’onere di difenderci dai malviventi, costringendoci ad acquistare i suoi servizi in regime di monopolio. Se è patente l’ingiustizia di questa costrizione a rivolgersi ai servizi di sicurezza offerti (imposti) da un unico fornitore, non meno importanti sono le considerazioni relative all’efficienza di questo sistema. La tesi dello Stato è che meno armi ci sono in circolazione e meno i cittadini avranno la tentazione di usarle per scopi aggressivi o per legittima difesa. «È lo Stato – sostiene Massimo Montebove, portavoce nazionale del Sap, Sindacato autonomo di polizia – che deve avere il compito di tutelare la sicurezza. La filosofia americana dell’autodifesa personale non è compatibile con la nostra cultura. E anche in America sta fallendo».

Innanzitutto, da dove salta fuori questo dogma secondo cui il “produttore” di sicurezza deve essere necessariamente lo Stato, e non esiste alcuna alternativa, precisamente quella di rifiutare la delega e assumersi in proprio la responsabilità di difendere ciò che legittimamente ci spetta? Chi ha stabilito che il proprietario, e non altri, non può essere la persona più indicata a difendere la proprietà?

L’affermazione secondo cui «la filosofia americana dell’autodifesa personale non è compatibile con la nostra cultura», poi, è addirittura tragicomica, perché induce a domandarsi immediatamente: la cultura di chi? Se il portavoce del Sap si riferisce agli italiani, allora non si capisce tutto questo allarmismo riguardo ai milioni di armi detenute legalmente nel nostro Paese, e che inducono Montebove a parlare di «emergenza grave, sempre più inquietante». Se la volontà di farsi personalmente difensori della propria incolumità e proprietà fosse davvero così estranea alla "nostra cultura", la "corsa alle armi" che tanto spaventa i sostenitori del monopolio statale della sicurezza non si verificherebbe, e non ci sarebbe motivo di preoccuparsi tanto. Invece, quelle armi sono il segnale inequivocabile che, con buona pace di Montebove, la «nostra cultura» sta cambiando, vuoi per paura (vocabolo immancabilmente sostituito da “psicosi” nel linguaggio dei giornali benpensanti), vuoi per mancanza di fiducia nei servizi di sicurezza forniti dallo Stato, vuoi per la progressiva presa di coscienza che, se certamente ogni tipo di reazione (difesa) deve essere commisurata all’azione (offesa) secondo un criterio di proporzionalità (e la valutazione della proporzionalità è precisamente il compito dei tribunali), il diritto alla proprietà privata implica, e non esclude, il corrispettivo diritto all’autodifesa.

Un’ultima osservazione su questo punto: quando il portavoce del Sap definisce estraneo alla nostra cultura il principio secondo cui la proprietà privata implica, e non esclude, il diritto all’autodifesa, ignora quanto scritto in proposito da colui che fu probabilmente il maggior giurista italiano del Novecento, Bruno Leoni: «normalmente ciascun individuo considera come legittima, perché perfettamente compatibile con quelle degli altri, la pretesa che gli altri non turbino certe situazioni in cui l’individuo si trova. La difesa personale, ad esempio, è basata sul concetto che nessuno debba offenderci ed è ammessa dalla legge; l’incolumità personale e l’integrità personale corrispondono alla pretesa che ciascuno ha di non essere assaltato e violentato. Tutte queste pretese sono normalmente considerate come compatibili, anzi lo sono perché se non lo fossero non sussisterebbero le convivenze pacifiche».

Quella tanto aborrita – da Montebove – “filosofia” è incompatibile con un’altra cultura: quella che pretende di fare dello Stato il monopolista della sicurezza, esterna e interna. Regolamentando fortemente il possesso delle armi e arrogandosi l’esclusivo diritto di perseguire i criminali, paradossalmente lo Stato ci impone la sua violenza con l’alibi di evitare le violenze di altri, ovviamente a nostre spese, con lo strumento della coercizione fiscale. A pensarci bene, è come se ogni giorno, quando usciamo di casa, lo Stato ci rapinasse di qualcosa con la scusa di proteggerci dai rapinatori. Una logica non diversa da quella del racket, con la differenza che quest’ultimo è consapevole di essere un’organizzazione criminale e di commettere una violenza.

Il portavoce del Sap, infine, sentenzia con grande sicumera che la «filosofia dell’autodifesa personale» sta fallendo anche negli Stati Uniti, ma si guarda bene dal fornire dati a dimostrazione di quanto va affermando. Secondo le più autorevoli fonti ufficiali statunitensi (che, non ce ne voglia Montebove, tendiamo a considerare più credibili, di certe affermazioni buttate “a capocchia” nel corso di un’intervista), sebbene negli Stati Uniti il numero di pistole in circolazione sia più che raddoppiato negli ultimi trent’anni, sia i suicidi sia gli omicidi (commessi con pistole o senza) sono rimasti stabili.

Non vi è alcun legame, dunque, tra questi fenomeni e non è corretto affermare che in una società armata suicidi ed omicidi tendano ad aumentare. Anzi, secondo i dati del Dipartimento di Giustizia americano, il rischio di ferimento durante un’aggressione per una donna che non opponga alcuna resistenza è 2,5 volte più grande che nel caso di resistenza armata; la resistenza senza armi è 4 volte più pericolosa che la resistenza con le armi. Per un uomo, i due rapporti assumono rispettivamente i valori di 1,4 e 1,5. Inoltre, sembra che nel 98% dei casi sia sufficiente che la vittima di un’aggressione brandisca una pistola perché il criminale desista dalle proprie intenzioni. Questo significa che nel 98% delle aggressioni contro uomini armati, il delinquente fa un buco nell’acqua e, ciò che è più importante, non vi è alcuno spargimento di sangue. Inutile chiedersi quale sia tale percentuale nel caso in cui la vittima sia disarmata.

Occorre aggiungere che, dal momento in cui le leggi e i provvedimenti che limitano il possesso di armi da fuoco entrano in vigore, i cittadini onesti si affrettano a rispettarla. Alcuni rinunceranno all’arma, altri seguiranno le procedure richieste per poterla mantenere; ma pare davvero ingenuo pensare anche solo per un attimo che i criminali si comportino nella stessa maniera. Essi, anzi, essendo – per definizione – fuorilegge, si troveranno in una situazione estremamente favorevole alla propria “attività” (nella quale dunque riceveranno un incentivo). Se infatti in una società “armata” bisogna sempre mettere in conto la possibilità di una reazione da parte dell’aggredito, in una società “disarmata” il bandito che si presenta alla vittima con una pistola in pugno avrà la strada spianata.

È del tutto evidente che la politica del disarmo forzato danneggerà soprattutto quelle categorie e quelle fasce sociali che sono più frequentemente esposte ad aggressioni (un sondaggio eseguito nel 1975 negli USA dice a che i più numerosi possessori di un’arma da fuoco a scopo puramente difensivo sono soprattutto neri, persone appartenenti a ceti dal basso reddito e anziani).

Lo aveva ben compreso, secoli fa, un altro colosso della cultura giuridica italiana, Cesare Beccaria:
«Le leggi che proibiscono di portare armi […] non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non scemano gli omicidi, ma gli accrescono, perché maggiore è la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati».

Giorgio Bianco

lunedì 18 agosto 2008

L’Angelo Azzurro, o la fine del Settantasette torinese. La tragedia che ha segnato la fine del Movimento studentesco e la nascita del terrorismo

La metà degli anni Settanta, in Italia, è segnata da una profonda crisi dei gruppi extraparlamentari di estrema sinistra: «La nuova leva del movimento che compare sulla scena politica a partire dal 1975 – scrivono Nanni Balestrini e Primo Moroni – è pesantemente critica e dissacratoria rispetto a stereotipi ideologici, modelli, ritualità e miti della tradizione internazionalista, fatti propri dai gruppi extraparlamentari nati dopo il 1968-69. Questa critica radicale ai “gruppi” (già avviata dal movimento femminista) metteva al centro della polemica le tematiche del “personale politico”, i rapporti tra i sessi, le formalizzazioni gerarchiche, il volontarismo alienante, ecc.». Le prime espressioni di quello che in un documento fu definito “un nuovo modo di fare politica” si manifestano a Milano tra il 1975 e il 1976, quando folte compagini giovanili danno vita a nuove e spontanee forme di aggregazione, a partire dalla critica all’infelicità della loro vita quotidiana: «Per tutti, indifferentemente esiste il problema del “tempo libero”, un tempo vissuto come obbligo coatto al vuoto, alla noia, all’alienazione». È a partire dalla critica di queste condizioni di vita che si costituiscono i "circoli" del proletariato giovanile. Costituiti da una maggioranza di giovani operai, apprendisti, impiegati delle piccole fabbriche dell’hinterland, e da una minoranza di disoccupati e studenti delle scuole professionali, nell’arco di pochi mesi occupano decine e decine di stabili (vecchie fabbriche abbandonate, chiese sconsacrate, case sfitte) e li adibiscono a centri sociali in cui dare vita ad iniziative sui temi della condizione giovanile. La natura violenta del “nuovo modo di fare politica” si manifesta immediatamente: i giovani si riversano al centro non più a gruppi, nei bar o nei cinema di terza categoria, bensì per suonare, ballare, fare festa, ma durante questi raduni scoppiano sempre più spesso scontri con la polizia e si fanno sempre più numerosi gli “espropri proletari” (né più né meno che furti) in negozi di lusso e supermercati, fino a raggiungere proporzioni di massa. Spirito ludico e aggressività: il primo destinato, nel corso del 1977, a dissolversi rapidamente, la seconda ad esplodere in tutta la sua virulenza (2.188 attentati terroristici, 32 gambizzati e 12 morti è la contabilità di uno dei più terribili fra gli “anni di piombo”). In questa violenza sempre più feroce si inquadra l’assalto, il 1° ottobre, all’Angelo Azzurro, locale nel pieno centro di Torino, nel quale perde la vita Roberto Crescenzio, ventiduenne estraneo alla militanza politica, un episodio che segnerà la fine del movimento dei “circoli”, ricostruito da Bruno Babando, giornalista e scrittore, in Non sei tu l’Angelo Azzurro. Una tragedia del Settantasette torinese, ed. Marco Valerio, € 16,00.

Festa e violenza, si è detto: «è impossibile scindere, in questo tentativo di destabilizzare le istituzioni – scrive Babando nella Premessa -, il gesto surreale da quello che porterà nelle manifestazioni non solo il simbolo ma la presenza della P38 […]. Azione violenta e creatività erano inscindibili, modi differenti di uno stesso pensiero polimorfo, ricco, forse inconsapevolmente, di ambiguità». L’ala “creativa” del movimento – che si sarebbe dissolta prima della fine dell’anno – seppe dar vita a momenti ludici, che sembravano voler sottrarre alla dimensione collettiva il dominio esclusivo e assolutizzante della politica. Ma, aggiunge Babando, «Per altri versi, l’allegria e l’ironia dissacrante di questa area – che ha negli “indiani metropolitani” il suo emblema – appare talora venata da un senso di sconfitta, quasi di disperazione», che non di rado sconfinerà in una vera e propria spinta autodistruttiva: «ciò che non riuscì a fare lo Stato ci pensò l’eroina».

In ogni caso, i circoli del proletariato giovanile suscitano subito interesse, e trovano appoggio organizzativo, in strutture politiche e culturali già organizzate. Da un lato, quello dell’“ala creativa”, il circuito di “Re Nudo” segue fin dall’inizio questo movimento che fonda la sua azione su un “nuovo modo di fare politica” che rispecchia lo slogan “il personale è politico”, e per questo vede nei circoli la realizzazione pratica del suo quasi decennale impegno controculturale. Dall’altro, le strutture politiche di Lotta Continua, in crisi dopo lo scioglimento ufficiale dell’organizzazione sancito dal congresso di Rimini dell’anno precedente, forniscono al movimento un supporto organizzativo, senza contare il grande numero di militanti delusi da quell’esperienza politica.

A Torino, Lc è ancora molto radicata: una sede centrale in corso San Maurizio 27, vicino a Palazzo Nuovo (la sede delle acoltà Umanistiche) e alla Mole, un migliaio di iscritti, migliaia di militanti, ventuno sezioni che coprivano in modo omogeneo il territorio cittadino, e circoli come il Barabba, il Cangaçeiros o lo Zapata, più o meno contigui. Eppure, sono proprio le testimonianze dei militanti del Cangaçeiros, il più organico a Lc, che danno la misura dell'insofferenza dei più giovani per il clima di rigidità, di spersonalizzazione, di algida burocrazia da "piccolo Pci" che si respira in Lotta Continua: «A un certo punto Lc mi ha mandato a fare il commissario nella sezione Mirafiori Quartiere perché ne succedevano di tutti i colori, c'erano i cristiano per il socialismo e gli stalinisti bestemmiatori che litigavano, per cui vivevo di nuovo la situazione di uno che arrivava lì e non c'entrava niente, da funzionario di partito. quindi una situazione che non c'entrava niente con me se non quella della mia ideologia»; «Mi ricordo che avevamo i capelli lunghi e questo non andava molto bene in Lotta Continua in quel periodo, e noi eravamo anche i più giovani. C'era un clima strano, io sono sempre steto lontano dall'entrare in Lc quando era forte, grande e organizzata a causa proprio di questa struttura ruguda, precisa, che secondo me allontanava un certo tipo di gente. Mancava in quel periodo lì una politica, che è poi quella che abbiamo fatto noi, più rivolta ai giovani, con tutte le contraddizioni che si vivevano, la vita com'era, i capelli lunghi, gli spinelli...»; «...il personale è politico: immagino non volesse dire solo le relazioni personali, rapporto fra i sessi, gelosia, eccetera, ma anche le relazioni con i genitori ecc. Probabilmente per personale si intendevano i bisogni, gli interessi e le contraddizioni: noi in questo senso qualcosa abbiamo fatto».

Il primo capitolo del libro si apre con due fotografie, la prima di Roberto Crescenzio, in attesa dei soccorsi, con il 90 per cento del corpo ustionato, la seconda di un gruppo di giovani del circolo dei Cangaçeiros, sorridenti e col pugno alzato, ai piedi del monumento ai Cavalieri d’Italia in piazza Castello. Sembrano un’innocua combriccola di liceali in gita scolastica, indisciplinati e chiassosi, ma in fondo ancora immuni dalla crudeltà umana. «Invece no. Tra quei giovani spavaldi e all’apparenza inoffensivi – scrive Babando - cova nelle viscere il verme tignoso della violenza e nei meandri insondabili delle loro acerbe menti cova già la morte. Quasi tutti sono stati segnalati alle autorità per una dissennata predisposizione a condotte brutali, alcuni hanno all’attivo imprese di teppismo di inusitata ferocia, per molti furti, rapine e attentati sono ormai il pane quotidiano di una militanza vissuta in maniera totalizzante».

Una brutalità e una ferocia che si scatenano anche il 1° ottobre, inizialmente con risultati deludenti, che lasciano trasparire lo sbando e la frustrazione in cui il movimento sta ormai precipitando. Il giorno prima, a Roma, durante una manifestazione, un gruppo di esponenti del Msi ha ucciso Walter Rossi, ventenne militante di Lotta Continua. Dopo qualche discussione fra i vari circoli, si raggiunge l’accordo sull’obiettivo della manifestazione, peraltro già noto alle forze dell’ordine fin dalla sera precedente: dare fuoco alla federazione provinciale missina di corso Francia 19. Verso le 10.30, tre cortei formati in prevalenza da studenti liceali e degli istituti tecnici e professionali, in tutto 2.500-3.000 ragazzi, si mettono in marcia in tre cortei distinti, e giungono a pochi metri dall’inizio di corso Francia. Decine di dimostranti calano i passamontagna o si mascherano con fazzoletti e sciarpe, ed estraggono dai tascapane bulloni, cubetti di porfido e “bocce” (le bottiglie molotov). Ad attenderli trovano un cordone di carabinieri e di uomini del 5° celere, con giubbotti antiproiettile, fucili e candelotti lacrimogeni innestati. Alcune auto sono raggiunte da bottiglie molotov, un’altra bottiglia incendia un albero sopra il tetto di un tram e per qualche istante si teme che l’incendio avvolga la vettura e i passeggeri, poi il fuoco si spegne. Nel frattempo, le forze dell’ordine sono già riuscite a ricacciare indietro i manifestanti. Mentre il grosso del corteo ripiega verso il centro, alcuni commandos di una decina di persone ciascuno si disperdono per vie laterali e compiono azioni di guerriglia urbana come fracassare la vetrina di una farmacia ed “espropriare” giacche e jeans da un negozio. Si tratta, precisa l’autore, di diversivi per distogliere le forze dell’ordine dall’altro obiettivo, la sede della Cisnal, il sindacato vicino alle posizioni del Msi. Qui, però, trovano gli uffici chiusi, e tutto si riduce con il lancio di bottiglie molotov contro la porta finestra del terzo piano e contro il portone. Anche il tentativo di assalto a Comunione e Liberazione si risolve nel lancio di due molotov: «in fondo è semplice routine. Il bilancio di quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto passare alla cronaca delle lotte antifasciste come una “grande mobilitazione militante” è assai magro. Ed è forse per frustrazione che lungo il percorso vengono compiuti una serie di atti che difficilmente possono essere definiti in altro modo che puro teppismo. È un corteo ormai allo sbando, privo di meta, inappagato nella sua finalità principale – la chiusura dei covi fascisti – e, cosa più pericolosa, scombinato sul piano organizzativo».

Il corteo si ferma in via Po angolo via Sant’Ottavio, la strada che conduce a Palazzo Nuovo, sede, come si è detto, delle facoltà umanistiche. I manifestanti sono ancora muniti di molotov, e soprattutto, come ben comprendono i capi, sono carichi di tensione, di adrenalina, di impulso all’azione esasperato dalla frustrazione. Sul corteo è calato il silenzio, niente più cori, grida, canzoni. A rompere la quiete irreale è Angelo Luparini, che lancia il segnale convenzionale, “Caino, avanti!”, con il braccio destro alzato. Le squadre del Barabba e del Cangaçeiros, una dozzina di giovani in tutto, si dirigono di corsa verso l’Angelo Azzurro, locale di via Po 46 che secondo una diceria diffusa nel movimento sarebbe un ritrovo di fascisti e un luogo di spaccio di droga. «Li segue e li scorta una piccola folla di dimostranti, eccitata dalla prospettiva di assistere e partecipare all’ennesimo episodio di guerriglia, un branco assalito da un delirio collettivo, posseduto dal demone della violenza. È la logica del branco a prevalere su ogni barlume di senno».

All’esterno del bar sosta il proprietario, Luigi De Maria, 35 anni, dentro ci sono la moglie, Maria Benedetta Evangelista, 30 anni, il barista Bruno Cattin, 27, e i due amici ventiduenni Roberto e Diego. Gli estremisti, infrante le vetrate, irrompono nel locale lanciando molotov e cubetti di porfido, i gregari gettano all’interno ogni genere di oggetto, sedie, tavolini, fioriere. I titolari riescono a fuggire dal retrobottega, Diego viene riempito di pugni e calci, colpito da pesante bastonata sulla testa e letteralmente gettato fuori, sul marciapiede. Roberto, in preda al panico, si barrica nella toilette: questo segna il suo destino. L’incendio divampa in brevissimo tempo, alimentato dalle suppellettili, dalle bottiglie di alcolici, e soprattutto dalla moquette. Roberto decide di uscire dal bagno, credendo di cavarsela con un pestaggio, ma appena aperta la porta viene investito da una vampata di fuoco: tenta di attraversare le fiamme, incespica, cade sulla benzina incendiata e in un istante si trasforma in una torcia umana. Benché allo stremo, riesce a chiedere aiuto, raggiunge la porta e stramazza a terra. La scena lascia gli assalitori impietriti: si guardano tra loro, nessuno ha il coraggio di prendere l’iniziativa, alla fine tutti fuggono, tranne due di loro che cercano di portare i primi soccorsi a Roberto.

Ricoverato al Centro grandi ustionati del Cto con il 90 per cento del corpo ustionato, Roberto Crescenzio sopravviverà due giorni, trovando persino la forza di rilasciare agli agenti di P.S. dell’ospedale una lucida e dettagliata dichiarazione. Alla cieca e furiosa violenza dei manifestanti, Torino risponde con civiltà e fermezza: oltre ventimila persone, sotto la pioggia sottile di ottobre, con in testa gli studenti dell’istituto tecnico industriale Spagnesi, dove Roberto si era diplomato e poi aveva trovato lavoro come assistente di laboratorio chimico, seguono il feretro dall’abitazione di via Oropa al cimitero di Sassi, sulla riva destra del Po. Il Pci torinese ha organizzato una massiccia presenza dei suoi iscritti, che marciano però senza bandiere, mentre gli operai dei consigli di fabbrica tengono tesi una cinquantina di striscioni. «Fra i giovani – scrive Babando – che sono arrivati in piccoli cortei dall’Università, dai licei e dagli istituti tecnici ci sono molti di quelli che sabato hanno partecipato alla tragica manifestazione, e, forse, confusi agli altri, ci sono pure i componenti del commando che ha attaccato il bar di via Po; senza passamontagna e tascapane, il volto smarrito di chi sa d’essere responsabile».

La vicenda giudiziaria è lunga, e ricostruita da Babando con dovizia di particolari, senza risparmiare critiche al modo in cui sono state condotte le indagini. La sentenza definitiva arriva il 26 marzo 1984: Francesco D’Ursi, Angelo De Stefano, Angelo Luparia e Angelo Bonvicini sono condannati a 3 anni e 6 mesi, Stefano Della Casa a 3 anni e 3 mesi, Peter Freeman viene assolto per insufficienza di prove. «Eppure ancora oggi – è l’amara considerazione -, a distanza di tanto tempo, non sappiamo tutti i nomi di coloro che hanno ammazzato Roberto Crescenzio. Anzi, proprio non sappiamo chi l’ammazzò. […] Nessuno è stato condannato per omicidio. Roberto, anche per la giustizia, non è stato assassinato, non è morto per mano assassina, ma è stato vittima della tragica conseguenza di un incendio doloso, epilogo del drammatico incidente occorso a una banda di teppisti e piromani durante la commissione di un altro reato. Non volevano uccidere, ma hanno ucciso. Non avevano nulla contro Roberto ma lui ci ha lasciato la vita. È l’insanabile contrasto tra verità giudiziaria e verità storica, tra la realtà ricostruita in un’aula di tribunale e quella vissuta dagli attori in carne ed ossa. La giustizia spesso deve arrendersi di fronte ai propri limiti, limiti che sono anzitutto quelli umani, accentuati dalla congerie di codicilli, glosse e stratagemmi difensivi di cinici azzeccagarbugli. È giustizia umana, appunto, non divina».

Alcune settimane dopo la morte di Crescenzio, un articolista di Ombre Rosse, rivista edita da Samonà e Savelli, si reca negli studi di Radio Città Futura, emittente del movimento che aveva seguito la manifestazione. Ne scaturiranno due fili diretti con gli ascoltatori, uno gestito dall’articolista, l’altro da redattori della radio. Ne emerge, commenta Babando, uno spaccato impressionante delle posizioni divergenti, e in alcuni casi addirittura contrapposte, di quella che era sembrata una sorta di «assemblea permanente dell’estremismo cittadino». Alcuni di quegli interventi sono sconcertanti, addirittura allucinanti: «Sull’eventualità che durante la pratica di un obiettivo possa rimetterci qualcuno che non c’entra, se n’era discusso sempre poco, di azioni del genere il movimento ne ha praticate tante e non era mai accaduta una cosa così: è sempre sembrato naturale che quando si attacca un luogo fisico tutti escano prima. Dopo l’Angelo Azzurro più nulla è naturale, ma non è giusto affermare, come hanno fatto molti, che d’ora in poi non si possano più praticare obiettivi dove ci sia la minima possibilità che qualcuno si faccia male: questo ragionamento porterebbe all’inazione, non si attaccherebbe nemmeno il Msi»; «In questa società nessuno c’entra niente, nessuno è in un posto per caso, tutti quanti abbiamo una funzione che ci è imposta da questa società. Si dice che è morto un ragazzo di 20 anni, che è stato ucciso dal movimento, ma avrebbe dovuto essere anche lui nel corteo, esercitare anche lui la stessa violenza che esercitava il corteo»; «La gente a volte non si rende conto di come stanno le cose: uno che si fa gli affari suoi, che non si interessa di politica, non capisce che proprio del fatto che lui non fa niente, che vuol starsene in pace, la borghesia ne approfitta e lo mette come muro nei confronti di chi si ribella a questa società. Per noi Crescenzio non è una vittima del movimento, ma è un omicidio di Stato».

In parole come queste si presagisce chiaramente che la distruzione del locale di via Po e la morte di Roberto Crescenzio segnano la fine del movimento a Torino e la rapida chiusura del suo ciclo nel resto d’Italia, per molti con un diffuso “ripiegamento nel privato” e nella solitudine, per altri nell’abbandono alla disperazione e all’eroina, per altri ancora nel passaggio alla clandestinità e poi al partito armato: «Sapremo poi che l’Angelo Azzurro sarà stato per un pugno di giovani torinesi, lo spartiacque tra una militanza vissuta e condivisa ma mai pianificata in banda armata, e quella di un’adesione a organizzazioni terroristiche».

Giorgio Bianco

Bruno Babando, Non sei tu l’Angelo Azzurro. Una tragedia del Settantasette torinese. Torino, Marco Valerio, 2008, p. 186, € 16,00.

mercoledì 6 agosto 2008

Piemonte 2050: sempre più vecchi, sempre meno contribuenti, o della necessità di superare lo Stato assistenziale ˗ Giorgio Bianco

È stata presentata, lo scorso 16 luglio, la pubblicazione Previsioni demografiche per sesso ed età al 2050, edita dalla Regione Piemonte e corredata da un commento di Stefano Molino, esperto di demografia della Fondazione Agnelli. Il dato che maggiormente balza agli occhi, ma che non rappresenta certo una sorpresa, è la rapidità e la diffusione dell’invecchiamento: a quella data l’età media, oggi inferiore ai 45 anni, raggiungerà i 50, un incremento che né la fecondità né i flussi migratori riusciranno a contrastare. Il fenomeno avrà ripercussioni soprattutto nella sfera lavorativa, dal momento che nelle aziende e nelle istituzioni saranno preponderanti risorse oltre i cinquant’anni, con tutti i problemi che questo porrà dal punto di vista della loro gestione, formazione e valorizzazione.


L’altro dato macroscopico evidenziato dal rapporto riguarda la natalità: nonostante l’aumento della fecondità recentemente ipotizzato per i decenni a venire, la natalità in Piemonte è destinata a calare dalle circa 37mila nascite degli ultimi anni a circa 20mila nel 2020. Un paradosso solo apparente, che si spiega con la progressiva uscita dall’età riproduttiva delle folte generazioni del baby boom degli anni Sessanta e con la conseguente diminuzione di padri e madri potenziali.


Un altro paradosso riguarda l’aumento dei decessi, pur in presenza di una dilatazione della speranza di vita. Le condizioni generali di vita saranno sempre migliori, le migliori mai registrate in Piemonte, ciononostante il numero dei decessi annui crescerà da 48mila a circa 57mila nel 2020. Un miglioramento delle prospettive di vita a livello individuale si accompagnerà quindi a una maggiore vulnerabilità della popolazione piemontese nel suo complesso.


In una situazione in cui la popolazione lavorativa, dai 15 ai 64 anni, subirà un tracollo, scendendo da due attivi su tre residenti a poco più di uno su due, e in cui la forte crescita della "quarta età" farà lievitare i costi delle cure mediche, le quali, come è noto, toccano il loro apice proprio negli ultimi anni della vita di una persona, le attuali strutture di assistenza sociale sono destinate ad entrare in crisi, e si renderà necessario un radicale ripensamento dei modelli di welfare state a cui siamo stati finora abituati. "È difficile ˗ osserva Enzo Ghigo, senatore del Pdl ˗ pensare che il sistema sanitario pubblico possa reggere di fronte a una domanda di salute che sale in modo esponenziale. Ci dovremo per forza inventare dei meccanismi integrativi, che puntino anche sulla sanità privata". Anche per Oreste Rossi, capogruppo della Lega Nord, si renderanno necessari "interventi dedicati a una popolazione sempre più anziana con maggiori problemi e patologie specifiche". Per le famiglie, poi, Rossi auspica incentivi previsti per i figli, "affinché possano adeguatamente mantenerli, favorendo così una natalità che invece continua a diminuire".


Beninteso, la pubblicazione della Regione Piemonte fotografa una situazione che, in misura diversa, coinvolge non solo tutto il Paese, ma anche gran parte dell’Europa. Scrive Wilfried Prewo, importante economista e direttore della Camera di Commercio e dell’Industria di Hannover nel suo Oltre lo Stato assistenziale, pubblicato in Italia a cura del think tank libertario Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it) e dagli editori Facco e Rubettino, "Tra il 2001 e il 2050 si prevede che la percentuale degli ultra sessantenni nella popolazione tedesca passerà dal 24 al 37%". Lo Stato assistenziale così come lo abbiamo conosciuto finora, osserva Priewo, si basa su un presunto "contratto fra generazioni", in base al quale i lavoratori odierni pagano le pensioni degli anziani e contemporaneamente crescono la generazione futura, con la tacita intesa che questi ultimi pagheranno la pensione dei dipendenti di oggi una volta che questi abbiano raggiunto l’età della pensione. "Il contratto tra generazioni ˗ commenta Priewo ˗ è un eufemismo di capacità mimetica senza pari: il testo del contratto, in cui venga chiaramente stabilita una formula che leghi saldamente le responsabilità alle prestazioni, non esiste. Una delle parti contraenti non è ancora nata o non ha ancora raggiunto l’età della ragione. Infine, i lavoratori attivi possono violare impunemente il contratto, ad esempio non generando la prole che in futuro dovrà sobbarcarsi l’onere di pagare le loro pensioni". Il che è proprio ciò che si sta verificando: le generazioni attualmente attive non hanno generato un numero sufficiente di figli e non hanno investito a dovere nel loro capitale umano.


A difesa del tradizionale Stato assistenziale, i suoi sostenitori si appellano spesso alla solidarietà, ma anche questo per l’economista tedesco, è un colossale imbroglio. Scrive Prewo: "L’idea di solidarietà chiede ai membri di una società di stare gli uni al fianco degli altri e ai più forti di sostenere i più deboli, qualora questi ultimi non riescano a badare a se stessi. Ma la solidarietà comporta anche qualcosa in cambio: se la generazione attuale pretende il sostegno della generazione futura, per prima cosa deve fare del proprio meglio per generare una prole sufficientemente numerosa. Invece, non avendo avuto abbastanza figli, abusa del proprio potere elettorale imponendo un’onerosa ipoteca ad una generazione futura numericamente esigua e attribuendo allo Stato il ruolo di garante di questo egoistico progetto. I politici trovano vantaggioso sposare e consacrare questa antitesi della solidarietà. Di fronte a tanta ipocrisia e ad un abuso così sfacciato del concetto di solidarietà, non fa meraviglia che i giovani dimostrino uno sconcertante cinismo e giungano ad ignorare anche chi potrebbe legittimamente appellarsi alla loro compassione".


La tara originaria del welfare state è stata il fatto che i cittadini non vengono considerati come consumatori di un servizio, quindi obbligati ponderare le proprie scelte al fine di contenere le spese, bensì come titolari di un diritto "concesso e fornito dallo Stato, a prescindere che quest’ultimo [agisca] in base a un mandato democratico o, come nel caso di Bismark, come un protettore autoritario, ma benevolo. Concedendo prestazioni sempre più generose la classe politica ha acceso ˗ ma non ha saziato ˗ gli appetiti di un elettorato sempre più esigente, con la tacita intesa che il grosso dei costi sarebbe stato trasmesso alle generazioni a venire. La tendenza demografica in direzione di un numero sempre maggiore di anziani e sempre meno giovani si profilava già all’orizzonte, specialmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma la miccia di questa bomba era invero molto lunga". Rapporti come quello della Regione Piemonte ci dicono che quella miccia si sta facendo sempre più corta, e se non si corre al più presto ai ripari la bomba finirà per deflagrare.

Cosa fare, allora? Secondo Prewo, la condizione necessaria al fine di spezzare il circolo vizioso dello Stato assistenziale è l’"abbandono della filosofia verticistica e mirata all’ingegneria sociale e la riorganizzazione della sicurezza sociale in un sistema operante dal basso verso l’alto, mosso dai consumatori stessi". Occorre dunque fare spazio a una ownership society, una società di proprietari liberi e responsabili; occorre cioè restituire ai cittadini la sovranità sul loro portafogli, riconsegnare loro la massima autonomia individuale. La proposta avanzata da Prewo, in sintesi, ruota intorno a cinque punti: 1) la trasformazione degli individui da beneficiari di un diritto in consumatori di un prodotto; 2) la creazione di Conti di Risparmio Previdenziale, Sanitario e altri intestati agli acquirenti di "prodotti" (servizi) di assistenza sociale; 3) maggiore efficienza accomunata a una garanzia di sicurezza sociale: ogni persona sarebbe libera di scegliere il miglior fornitore di assicurazioni per l’assistenza sanitaria, la disoccupazione, i congedi per malattia o la pensione, ma sarebbe obbligatoria una copertura minima, la quale non dovrebbe comunque essere monopolizzata dallo Stato, ma offerta in libera concorrenza fra imprenditori; 4) qualora il consumatore dovesse risparmiare denaro, questo non potrà essere speso per consumi, ma dovrà essere destinato a voci non coperte dalle assicurazioni, come franchigie, o per altri fini previdenziali; 5) infine, una considerazione di realismo politico: poiché, al momento, gli enti di assistenza statale danno lavoro a migliaia di dipendenti, se la riforma non prevedesse per questi ultimi alcun ruolo futuro, essi si batterebbero per impedire alla riforma di avere successo. Al contrario, per rendere più morbida la transizione a un sistema di risparmio privato si potrebbe permettere agli enti gestiti dallo Stato di fornire, in concorrenza con altri produttori, strumenti di assistenza sociale. Sarà poi compito del mercato premiare i fornitori più efficienti e sanzionare quelli inefficienti.


Come si vede, la "ricetta" di Prewo, al di là delle difficoltà di attuazione pratica che qualunque riforma di grande respiro pone, si fonda su alcuni semplici ma imprescindibili principi di libertà e giustizia, con cui, volenti o nolenti, si dovrà tornare a fare i conti: togliere allo Stato compiti che non sono suoi e comunque alleggerirne il peso ormai insopportabile, dare fiato al mercato, e soprattutto restituire fiducia e libertà di agire agli individui.


Giorgio Bianco